La pulizia etnica di Madobe in Jubaland
Shukri Said – Primavera Africana – L’altro ieri un nuovo attentato al Ministero dell’istruzione e università a Mogadiscio è costato la vita ad almeno diciotto civili. Altri venti sono rimasti feriti.
Già l’attentato di Al Shabab all’Università di Garissa in Kenya, con i suoi 150 morti in prevalenza giovani promesse africane, oltre a segnare un altro record nella sciagurata gara tra jihadisti a chi fa la strage più efferata o compie l’esecuzione più orrenda, ha spostato l’opinione pubblica mondiale a favore del Kenya che, invece, non è affatto ben visto dai somali in quanto sostiene il regime di Ahmed Madobe nella città di Kismayo, capitale della Regione meridionale del Jubaland.
Oggi Kismayo, il terzo capoluogo più importante della Somalia che appena una ventina di anni fa era il più cosmopolita ed aperto del Paese, è una città fantasma dove è in atto una vera e propria pulizia etnica per sostituire gli indigeni con il clan di Madobe sparso tra le milizie rascamboniane dei territori kenioti dell’NFD e quelle dell’ONLF dell’Ogaden occupato dall’Etiopia.
In vista delle elezioni del governatore del Jubaland la prossima estate, ogni notte si contano gli omicidi, ormai giunti a 180, e le vittime appartengono alla migliore società civile di tutti i clan. Tutti, meno uno.
Su quanto accade a Kismayo la comunità internazionale sta chiudendo completamente gli occhi non volendo ammettere che ad Addis Abeba, quando il 28 agosto 2013 approvò l’istituzione dell’Amministrazione provvisoria del Jubaland, scelse l’uomo sbagliato in Ahmed Madobe sostenuto dal Kenya.
In ambito IGAD, poi, la situazione è ancora più squilibrata in favore di Madobe per due motivi.
Da una parte, infatti, l’Ambasciatore dell’IGAD per la Somalia è Mohamed Abdi Afei, che è un somalo keniota cugino di Ahmed Madobe; dall’altra parte, il Colonnello etiope Mohamed Abdi Afei, addetto all’Ufficio facilitazione e riconciliazione dell’IGAD per la Somalia, pensa di mantenere la pace con la pistola in pugno, minacciando i saggi locali affinché si esprimano conformemente alle indicazioni di Madobe. Tanto è vero che gran parte degli Anziani del Jubaland sono fuggiti a Mogadiscio per tutelare la loro incolumità e per manifestare davanti all’Ufficio ONU di Nicholas Kay. In risposta a queste manifestazioni, Modobe ha affermato“Al posto dei clan che non saranno presenti, voterò io”.
Ma se falliscono corrette elezioni del governatore del Jubaland, salta l’ipotesi di una Somalia federale e nascerà un insieme ingovernabile di regioni claniche pronte a scontrarsi tra di loro.
Occorre prendere atto che l’idea attuata dal Kenya nell’ottobre 2011 di entrare in territorio somalo per proteggersi dagli Al Shabab alleandosi con Madobe, era sbagliata perché l’unica difesa dagli attacchi terroristici è eliminare il problema alla radice. Invece la guerra agli Al Shabab va avanti a balzelloni. Dopo un’offensiva ci si ferma per mesi permettendo ai jihadisti di riorganizzarsi ed armare nuovi proseliti. Si tratta di un meccanismo che perpetua la missione di AMISOM senza risolvere il problema degli Al Shabab favorendo, di fatto, tra l’altro, il lungo regno di Museveni in Uganda, massimo contributore di quelle truppe internazionali di stanza in Somalia le quali, più che essere ricordate per i successi contro Al Shabab, sono accusate dei più loschi traffici, dal mercato nero delle armi alle violenze sessuali.
Oggi, dopo l’ultimo attentato all’università di Garissa, il Kenya insiste nel chiedere all’ONU di cacciare entro tre mesi i somali dai campi profughi sul suo territorio a cominciare da Dadaab.
In realtà, l’unico rapporto che il Kenya dovrebbe avere con la Somalia, in quanto paese confinante e, per di più, con uno storico contenzioso territoriale sull’NFD, dovrebbe consistere, al pari dell’Etiopia per il contenzioso sull’Ogaden, proprio e solo nell’assistenza ai profughi, senza partecipare a missioni militari di peacekeeping in Somalia, mentre la Somalia dovrebbe essere aiutata ad avere un proprio esercito, efficiente e ben addestrato. Ma si può mirare a tanto se le istituzioni somale sono nelle mani di Damul Jadid, affiliata ai Fratelli Musulmani? Evidentemente no, e qui si torna alle grandi contraddizioni della Somalia e delle scelte che per lei ha sin qui fatto la comunità internazionale.
Se la Somalia non ha istituzioni affidabili, non le si può consentire un esercito efficiente.
Senza un esercito nazionale efficiente, Al Shabab deve essere arginata con truppe internazionali ben pagate (dieci volte più dei soldati somali). Se sconfiggi Al Shabab, cessa il flusso di denaro internazionale verso i paesi che forniscono le truppe. Quindi, finché c’è guerra, c’è speranza. E intanto la Somalia soffre.
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