Il Far West a Mogadiscio
Shukri Said – Primavera Africana – Da giorni a Mogadiscio non si esce di casa. E’ calato un coprifuoco non dichiarato ufficialmente, ma presente ed evidente a tutti gli abitanti che se ne stanno rinchiusi nelle loro abitazioni. Circolano solo armigeri ed avvengono quotidianamente una pluralità di omicidi eccellenti. Eccellenti nel senso del valore riconosciuto a chi ha un posto nella storia istituzionale del Paese. Generali soprattutto. Generali dei tempi di Siad Barre, spesso formati nell’Accademia di Modena, compagni di corso di alcuni dei più importanti militari italiani di oggi e di cui si teme a Mogadiscio che potrebbero contrastare, con la loro esperienza e le loro conoscenze di tecnica militare, gli arrembanti miliziani che imbracciano le armi destinate all’esercito somalo che, dall’alto, è stato trasformato in una truppa monoclanica.
Il Presidente della Repubblica Federale somala Hassan Sheikh Mohamud al centro con il Presidente del Parlamento Mohamed Osma Jowari a sinistra e il PM Abdiweli Sheikh Ahmed a destra
In questo clima intimidatorio da Far West dovrebbe votarsi sabato prossimo nel Parlamento di Mogadiscio, presieduto da Mohamed Osman Jowari, la fiducia al Primo Ministro Abdiweli Sheikh Ahmed, minacciato egli stesso nella vita al pari tutti i parlamentari che si oppongono alla setta affaristico-islamista di Damul Jadid che sostiene il Presidente Hassan Sheikh Mohamud. Una votazione di sfiducia che l’intera comunità internazionale ha dichiarato in tutte le sedi di non volere e di non accettare fino al punto di far saltare, ormai definitivamente, l’importantissima conferenza di Copenaghen che avrebbe dovuto tenersi nei prossimi giorni sul New Deal somalo.
Ma se anche questo determinante appuntamento per il futuro economico e politico della Somalia è stato fatto saltare con superba indifferenza, pur di sfiduciare il Primo Ministro Abdiweli, bisogna che la comunità internazionale prenda atto che non è la sola voce influente in Somalia e che c’è chi può contrastarla all’interno perseguendo i propri scopi che non collimano affatto con i suoi.
La comunità internazionale aveva ideato le istituzioni della Repubblica Federale somala quale successione al governo di transizione e proiezione verso la democrazia delle elezioni a suffragio universale nel 2016. Per creare le attuali istituzioni aveva adottato il meccanismo del cosiddetto “4.5” (four point five), cioè un rappresentante nelle istituzioni per ciascuno dei quattro grandi clan del Paese, e “mezzo” per le minoranze.
Se il Presidente della Repubblica Federale, appartenente ad un clan, determina ogni sei mesi la caduta del primo ministro appartenente ad un altro clan che lui stesso ha scelto dopo accurato esame – e questo succederà ormai per la seconda volta sabato prossimo – non si tratta di una semplice incompatibilità di carattere tra individui, bensì del deliberato disegno di impedire ad uno dei quattro grandi clan di esprimere il proprio rappresentante nelle istituzioni: non si tratta di due prime donne che bisticciano, bensì dell’intento di interrompere il flusso di simpatia e consenso che il buon lavoro pubblico può portare a chi ne è l’artefice.
E’ evidente che, se si adotta una condotta diametralmente opposta a quella espressamente indicata dalla comunità internazionale, vuol dire che a Mogadiscio si può contare su appoggi alternativi, che non possono essere altri che quelli che si contrappongono, sempre in quell’area, alla comunità internazionale. E’ facile capire che si tratti di quegli stessi ambienti che, poco più in là sull’atlante, sostengono il califfato dell’Is.
Se la comunità internazionale non vuole perdere la Somalia per la seconda volta, deve individuare oggi chi le si contrappone ed intervenire per eliminare definitivamente l’interferenza negativa per il bene del popolo somalo.
http://primavera-africana.blogautore.repubblica.it/2014/11/14/il-far-west-a-mogadiscio/
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