Gli esuli di via Curtatone tutti e 400 eritrei ed etiopi che ora hanno un tetto sulla testa ma lo sgombero fa paura
Ci sono anche 22 bambini. E’ una delle quattro occupazioni dei rifugiati a Roma, spiega Alberto Barbieri, di Medici per i diritti umani, assieme al Collatino, Ponte Mammolo e Salam Palace di Tor Vergata. In via Curtatone sono autogestiti, c’è ovunque ordine e pulizia. Le regole che si sono imposti non ammettono alcol, fumo o urla
ROMA – Nella stanza dei bambini ci sono sedie e tavolini bassi. Due scatole di giochi e una vasca con tre pesciolini rossi. Sullo stesso piano c’è la sala riunioni: tre rifugiati stanno seguendo un corso teorico di guida. Pochi passi più in là si entra nell’appartamento, o meglio nella camera, di una famiglia: letto, divano, tv, frigorifero, due armadi a muro, una cucina da campo, un tavolo. La mamma sta guardando un quiz con Gerry Scotti, il figlio di due anni e 4 mesi dorme tranquillo. Il bagno è in comune sul corridoio: la luce non si accende.
A due passi dalla stazione Termini. Benvenuti nel “grande palazzo”: otto piani al centro di Roma, in via Curtatone, a due passi dalla stazione Termini e dal Consiglio superiore della magistratura, di fronte alla sede romana del Sole24Ore. Occupata nel settembre 2013, oggi la vecchia sede dell’Ispra (Istituto superiore protezione ambientale) dà rifugio a 400 eritrei ed etiopi e 22 bambini. Tutti rifugiati. Tutti disoccupati, tranne una ventina che hanno un lavoro. Repubblica già c’era entrata a inizio anno, ora ci siamo tornati con le telecamere. Senza appuntamento, senza avvertire, ci siamo presentati alla porta, ci hanno fatto entrare, ci hanno raccontato.
Le complicazioni del “decreto casa”. “Via Curtatone è una delle quattro grandi occupazioni di rifugiati a Roma – spiega Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i diritti umani – assieme al Collatino, Ponte Mammolo e Salam Palace di Tor Vergata. Spazi autogestiti, chiusi, simbolo del fallimento del sistema d’accoglienza del nostro Paese”. Situazioni che potrebbero peggiorare alla luce delle nuove norme del cosiddetto “decreto casa”: “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza”. Un testo che rischia di complicare ancor più la vita di migliaia di rifugiati “occupanti”.
“Qui solo richiedenti asilo”. A farci da guida nel “grande palazzo” al centro di Roma è Adhanam, membro del comitato che coordina gli occupanti. Fuggito dall’Eritrea a piedi, in Sudan ha pagato mille dollari ai trafficanti d’uomini per arrivare in Libia. “Lì ci hanno trattati come scimmie. Ci hanno rinchiuso in un furgone. Ci hanno chiesto altri mille dollari per imbarcarci per la Sicilia”. Una volta arrivati in Italia, “siamo stati abbandonati”. Adhanam parla in inglese, si indigna, rivendica diritti: “Qui siamo tutti in regola coi documenti, rifugiati e richiedenti asilo. Molti di noi sono laureati. Nessuno è scappato per motivi economici, ma solo per la libertà e per poter sopravvivere in pace”. L’occupazione all’inizio doveva essere solo dimostrativa. “Occupare un simbolo al centro di Roma per dire “esistiamo!” e chiedere il rispetto dei nostri diritti. Molti di noi venivano dal Cara di Castelnuovo di Porto, altri vivevano da homeless a Ponte Mammolo. La risposta? Nessuna. Molti giornalisti hanno bussato alla nostra porta, nessun uomo delle istituzioni”.
La normalità nell’emergenza. Quello che stupisce del “grande palazzo” è la normalità nell’emergenza. Immaginate sporcizia, urla, puzza? Sbagliato. Per essere un vecchio palazzone abbandonato, ora sovraffollato, qui tutto è abbastanza in ordine, abbastanza pulito. Ma soprattutto c’è un grande silenzio, neppure i bambini fanno rumore. “Ci siamo dati delle regole – spiega la nostra guida – non sono ammessi alcol, fumo, urla. Non dobbiamo dare fastidio a chi vive o lavora qui vicino. Nessuna associazione ci aiuta, andiamo alle mense della Caritas o del centro Astalli. Qualche ristorante a fine giornata ci regala il pane che avanza”. L’elettricità c’è quasi ovunque, le tv sono accese, l’ascensore e i condizionatori sono rotti. L’acqua c’è, ma la pompa non è potente abbastanza e non arriva a servire gli ultimi piani.
“La paura si chiama sgombero”. Una madre ci accoglie nella stanza dove vive con il piccolo figlio. Ci fa vedere gli armadi che ha trovato per strada, il divano, la cucina. Tiene tutto pulito. “Grazie a Dio, abbiamo un tetto sulla testa”, ci dice. La paura si chiama “sgombero”. Adhanam ci guarda: “L’Italia non è un Paese per rifugiati”. Poi ci saluta.
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