«Coinvolgiamo nel lavoro i migranti». L’idea viene dal Viminale, dal prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione.
Prefetto, cosa intende?
«Alcuni sindaci hanno già attivato progetti di volontariato che vedono i migranti protagonisti. È ora di fare un passo in avanti».
Sa di affrontare un tema poco popolare?
«Sì, ma non possiamo più lasciare queste persone appese in attesa di un destino che cada dall’alto. E che si abbrutiscano passando la giornata ad attendere il pranzo e la cena».
Pensa a tutti i migranti?
«Solo quelli che sono legittimamente sul nostro suolo: i rifugiati o chi ha già presentato la richiesta di asilo».
Possono o devono lavorare?
«Possono, nell’interesse loro e della collettività. Per carità, nessun obbligo. Semmai possiamo pensare a un meccanismo premiale».
Di che tipo?
«Chi mostra buona volontà e capacità di inserirsi nel nostro contesto sociale potrebbe ottenere un’attenzione diversa nell’accoglienza».
Una corsia preferenziale?
«C’è il permesso umanitario. Attualmente viene dato per motivi di vulnerabilità ai bambini e ai malati. Potremmo usarlo in questo senso. Dopo un anno la verifica servirebbe da incentivo a comportamenti virtuosi».
Il lavoro presuppone una paga. O pensa a un volontariato gratuito?
«Non penso a una paga con tariffe nazionali. Ma a una retribuzione che potrebbe essere ridotta: la decurtazione servirebbe per recuperare i costi dell’accoglienza».
Mira al rientro delle spese o all’integrazione?
«Miro a dare loro un futuro e far sì che non siano solo un peso per la comunità: l’inclusione, poi, impedisce la radicalizzazione e giova alla sicurezza. Questa emergenza si può trasformare in un’occasione di sviluppo».
Le diranno: e gli italiani che non hanno un lavoro?
«Io mi occupo di immigrati. Dei cittadini italiani se ne dovrebbero occupare altri ministeri. Se mi danno l’incarico cercherò soluzioni per quel problema. Attualmente mi piacerebbe che a rompermi la testa non fossi solo io che sono un prefetto».
E allora chi?
«La soluzione non può essere dirigista con un “super-qualcuno” che decide su tutto e tutti. Ma con chi è sul territorio. Presidenti di Regione e sindaci per primi».
La casa ai rifugiati genera proteste. Anche, come anticipato dal Corriere, a Capalbio: lì due cittadini hanno fatto ricorso al Tar.
«Né Capalbio né Portofino potranno sottrarsi alle proprie responsabilità perché i sindaci temono di perdere consenso».
Ma 50 rifugiati in un comprensorio nel centro storico non è una scelta criticabile?
«L’accoglienza diffusa è quella che noi preferiamo. Si poteva prevedere una soluzione diversa».
Il sindaco lamenta che è stata imposta dal prefetto.
«Se ci fosse un progetto adeguato i prefetti si asterrebbero dal fare bandi di gara. È ovvio che non puoi fare il furbacchione, prendendoti due immigrati e pensando di essere a posto. Altrimenti finisce così: il prefetto, che da qualche parte li deve mandare, trova l’albergo e fa la gara».
L’Europa a febbraio aveva sollecitato progetti per impiegare i rifugiati. L’idea nasce da lì?
«No. L’Europa è chiusa nelle piccole paure. Servono un salto di qualità e politici coraggiosi».
Quali lavori potrebbero svolgere i profughi?
«Ci sono settori che hanno bisogno: l’agricoltura, le costruzioni, l’assistenza agli anziani».
Come evitare lo sfruttamento e i business criminali?
«Ci sono sanzioni penali. C’è un protocollo sulla legalità. Non pensiamo di trattarli come schiavi. Certo, dove c’è il formaggio arrivano i topi. Bisogna tenere lontano affaristi e garantire trasparenza. Ma non possiamo più essere prigionieri dei “no” dei sindaci che mirano più alla caduta di Alfano o di Renzi che a risolvere la situazione».
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