Sfilano così, nella sua galleria di ritratti esemplari, Francesco, nordafricano, nome fittizio perché lui lavora all’antidroga, manco a dirlo in genere sotto copertura, e pure i suoi colleghi lo scambiano per un immigrato clandestino, chi l’aveva mai visto un poliziotto con la pelle nera? Liliam, nata nell’80 e cresciuta nella favela brasiliana di Cabanga, abusata da bambina, poi la fuga, la fame, l’accattonaggio, a 14 anni il miraggio di un lavoro in Europa e finisce a Dusseldorf, schiava e prostituta fino all’arresto dei suoi aguzzini: oggi è una delle più stimate pasticcere di Torino, premio MoneyGram come migliore imprenditrice straniera dell’anno. Ancora, si raccontano nuovi ricchi come Otto Bitjoka il finanziere (ma lui era di famiglia possidente già in Camerun), nuovi apostoli come Ghesce il monaco buddhista di Pomaia, personaggi pubblici come Idris della tv e Thuram il calciatore.
Restano ovviamente inevasi, in questa visione assai ottimista del nostro futuro prossimo come di una «società multiculturale comunque inevitabile e con ogni probabilità migliore dell’attuale», tutti quei problemi e inciampi e disastri che le cronache ci restituiscono ogni giorno: le migrazioni indiscriminate e quasi impossibili da gestire in emergenza continua, la renitenza dell’Europa a condividerne l’impatto, la dilagante radicalizzazione di parte dell’immigrazione islamica specie nella seconda generazione, i rischi che ciò comporta anche soltanto per ragioni numeriche e percentuali, come insegnano Francia, Belgio, Germania, Svezia. Ma è giusto così. Non è e non vuole essere, quello di Storni, un saggio di sociologia spicciola. Solo, ed è questo il suo merito, un riflettore acceso sulle opportunità e le occasioni che anche per il nostro paese si aprono proprio nel mezzo delle epocali mutazioni e convulsioni in atto.
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