Cittadinanza e immigrazione: la riforma non può più aspettare
Fabrizio Anzolini – A maggio 2014 alla Camera dei Deputati risultavano presentati ventuno progetti di legge volti a modificare l’attuale legislazione sulla cittadinanza e, in particolare, le norme che regolano l’acquisizione della cittadinanza da parte degli stranieri: venti progetti di iniziativa parlamentare e uno di iniziativa popolare.
La legge a cui fa capo oggi la disciplina in materia di cittadinanza è n. 91 del 1992, una legge che ha più di vent’anni ed è stata varata in un’Italia completamente differente da quella di oggi, soprattutto perché, proprio in quegli anni, il nostro Paese aveva cominciato a trasformarsi da meta di partenza per i nostri connazionali, che andavano a “cercar fortuna” all’estero, in meta di arrivo di notevoli flussi migratori. Da qualche anno, proprio a causa di questo cambiamento strutturale, politica e opinione pubblica discutono su come aggiornare o modificare la legge in questione, con un occhio di riguardo agli articoli che trattano l’acquisizione della cittadinanza da parte degli immigrati o dei loro figli, cioè delle cosiddette “seconde generazioni“.
Gli articoli in questione sono, in particolare, il 4 e il 9. Naturalmente, però, per capire il dibattito in corso va inquadrato il contesto in cui questo avviene, dato dall’art. 1 della legge 91 del 1992 ai sensi del quale hanno diritto alla cittadinanza italiana, sin dalla nascita, tutti coloro i cui genitori (anche soltanto il padre o la madre) siano cittadini italiani. In questo articolo si racchiude il principio base dell’acquisizione della cittadinanza in Italia: il cosiddetto ius sanguinis tipico delle società caratterizzate da una forte emigrazione.
Lo Ius sanguinis permette, tramite la trasmissione “di sangue”, di tramandare la cittadinanza di generazione in generazione anche tra gli emigrati, a differenza dello ius soli che consente di ottenere la cittadinanza del Paese in cui si nasce.
In Italia, come abbiamo visto, la legge si rifà a un principio di ius sanguinis e questo comporta che un bambino figlio di immigrati, anche se nato in Italia, possa diventare cittadino italiano a condizione che abbia risieduto legalmente e interrottamente nel nostro Paese fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari, entro dodici mesi dal compimento del diciottesimo anno, di voler acquistare la cittadinanza italiana (come previsto dall’art. 4 della legge 91/1992).
L’articolo 9 della legge, invece, prevede che uno straniero residente in Italia possa diventare italiano facendone richiesta soltanto dopo un predefinito periodo di residenza legale nel nostro Paese. In questo caso si tratta di un’acquisizione della cittadinanza per “concessione” e, a differenza di tutti gli altri casi, si tratta di un provvedimento soggetto a una forte discrezionalità da parte delle istituzioni preposte.
Per precisione, in base all’art. 9 della legge 91/1992, può presentare domanda per ottenere la concessione della cittadinanza lo straniero che si trova in almeno una della seguenti condizioni:
– essere residente in Italia da almeno dieci anni, se cittadino non appartenente all’Unione Europea, o da almeno quattro anni se cittadino comunitario.
– essere un apolide residente in Italia da almeno cinque anni.
– il padre o la madre, o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado, sono stati cittadini per nascita, o sono nati in Italia e, in entrambi i casi, vi risiedono da almeno tre anni.
– essere maggiorenne adottato da cittadino italiano e residente in Italia da almeno cinque anni.
– aver prestato servizio alle dipendenze dello Stato italiano, anche all’estero, per almeno cinque anni.
Come ha avuto modo di scrivere anche Paolo Attanasio in “Immigrazione – dossier statistico 2013” di Unar-Idos “in termini di anni di residenza richiesti la legge attuale non è soltanto peggiorativa del testo previgente (che richiedeva cinque anni per tutti), ma suddivide i richiedenti stranieri in diverse categorie, cui vengono applicate condizioni differenziate: mentre i dieci anni valgono soltanto per i cittadini non comunitari, ai comunitari ne bastano quattro (in quanto facenti parte di un gruppo considerato affine), ai rifugiati cinque e ai richiedenti di origine italiana (in quanto categoria privilegiata nella visione “co-etnica” del legislatore) soltanto tre”.
Questi, quindi, sono i principali articoli che da alcuni anni sono oggetto di riflessione per quanto riguarda una riforma, quella sull’acquisizione della cittadinanza, che, oltre ad essere necessaria, andrebbe incastonata in una più generale riforma di tutto il “sistema immigrazione”.
Personalmente sono convinto che il miglior modello di inclusione a cui fare riferimento quando si parla di politiche d’immigrazione sia quello ‘assimilazionista’ che mira ad assimilare completamente l’immigrato nella cultura del Paese ricevente. In quest’ottica è chiaro che, senza perdere ulteriore tempo, il Governo potrebbe presentare un progetto di legge volto a modificare principalmente gli articoli 4 e 9, in attesa di una più ampia e coerente riforma del diritto dell’immigrazione in Italia.
Come altri hanno affermato, la migliore riforma potrebbe essere quella che prevede uno “Ius culturae” per le seconde generazioni: il figlio di immigrati nato in Italia, o giunto in Italia prima del compimento dei cinque anni, può diventare cittadino italiano dopo aver adempiuto all’obbligo scolastico o, almeno, dopo aver frequentato la scuola primaria e la secondaria di primo grado. Sia nel caso del ciclo “elementari più medie” che nel caso della frequenza dell’intero ciclo di “scuole dell’obbligo” si potrebbe pensare ad un ottenimento automatico della cittadinanza con il superamento dell’esame di stato o a conclusione del ciclo formativo. Questo risolverebbe il problema di verificare l’apprendimento della nostra lingua e, oltretutto, permetterebbe la formazione dei nuovi cittadini direttamente nel nostro sistema scolastico. In linea con un modello di inclusione che io definirei “assimilazionismo maturo” e che porta a omologare alla cultura ospitante l’immigrato o il cittadino straniero che vuole diventare cittadino italiano. Qualora il cittadino straniero giungesse in Italia dopo il quinto anno di età, ma prima del decimo, dovrebbe comunque frequentare otto anni di scuola italiana prima di poter chiedere la cittadinanza. Per quanto riguarda l’art. 9, invece, sarebbe necessaria una semplificazione: tutti i cittadini stranieri, comunitari e non, possono fare domanda per ottenere la cittadinanza italiana dopo otto anni di residenza regolare nel nostro Paese e dopo aver superato un esame di lingua italiana e inglese (dobbiamo sempre ricordare, infatti, che acquisendo la cittadinanza italiana lo straniero acquisisce, contestualmente, anche la cittadinanza europea).
Queste, comunque, sono soltanto alcune idee, riassunte e sintetizzate, per contribuire al dibattito sulla riforma delle norme sulla cittadinanza. Oltre a una disamina della casistica molto più precisa e contestuale, infatti, andrebbe anche sottolineata la necessità di delineare una riforma dopo un confronto con la Commissione europea, se non altro per stimolarla a cercare di omogeneizzare e standardizzare la legislazione in materia così come dovrebbe avvenire con il più vasto tema dell’immigrazione e della protezione dei rifugiati.
fonte: huffingtonpost.it
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