Chiudere Dadaab manovra elettorale? Intervista a Mariam Yassin Yussuf
Shukri Said – Blog Primavera Africana – Nessuno conoscerebbe Dadaab, la cittadina keniana posta in una zona desertica a cento chilometri a est dal confine con la Somalia, se non avesse ospitato, in cinque aree tra loro vicine, quello che, dal 1991, è diventato il più grande campo profughi del mondo. Le condizioni di vita sono durissime e sfiorano i ritmi della prigionia. All’inizio dello scorso mese di maggio il Presidente keniano Uhuru Kenyatta ha però deciso che il campo di Dadaab deve essere chiuso.
Si sono stanziati 10 milioni di dollari ed assegnato il termine di un anno per riuscire nell’impresa. Ufficialmente ci sono ragioni di sicurezza. Le autorità keniane affermano che il campo di Dadaab è stato infiltrato da Al Shabab, l’organizzazione terroristica somala affiliata in parte ad Al Qaeda e in parte all’Is, e da Dadaab sarebbero partiti i commando degli attentati del settembre 2013 al Westgate di Nairobi (67 morti) e dell’aprile 2015 all’università di Garissa (148 morti), cioè dei più gravi tra i numerosi attentati di matrice fondamentalista che dal 2011 hanno insanguinato il Kenya. Tuttavia le autorità keniane non hanno mai fornito prove che i mujaheddin provenissero da Dadaab e secondo gli osservatori sarebbero altre le motivazioni che spingerebbero a proclamare l’imminente chiusura di Dadaab.
Il campo profughi di Dadaab, il più grande del mondo
A luglio 2017, infatti, ci saranno le elezioni in Kenya e i ripetuti attentati di Al Shabab hanno ridotto ai minimi termini il turismo, una delle maggiori entrate per la popolazione. Inoltre l’Unione Europea ha ridotto del 20% gli stanziamenti a favore delle truppe di AMISOM, la missione africana sostenuta da USA, UE e ONU per la stabilizzazione della Somalia cui il Kenya partecipa dall’ottobre 2011 con 3500 soldati tra i quali si annovera un’alta percentuale di caduti.
L’annunciata chiusura di Dadaab, dopo anni di meritoria accoglienza, appare quindi sopratutto un modo per fare pressione sulla comunità internazionale senza preoccuparsi di gettare nell’incertezza più drammatica quegli sfollati che dovrebbero tornare in aree somale di combattimenti e di fame da cui già una volta erano fuggiti.
Sulla chiusura del campo di Dadaab abbiamo intervistato Mariam Yassin Hagi Yussuf, Inviata Speciale del Governo somalo per i diritti dei minori e dei migranti.
Mariam Yassin Hagi Yussuf, Inviata Speciale per i diritti dei minori e dei migranti del Governo somalo del PM Ali Sharmarke
D. Cosa pensa il governo somalo del PM Omar Abdirashid Ali Sharmarke della chiusura del campo di Dadaab annunciato dalle autorità keniane?
R. Non sono la portavoce del Governo Federale, ma personalmente penso che si debba aprire un tavolo di negoziato tra il governo keniano, quello somalo e l’UNHCR per gestire il problema del rientro volontario dei rifugiati in base alle leggi internazionali.
D. Qual è attualmente la condizione degli sfollati a Dadaab?
R. Si può definire con un ossimoro: precaria ma stabile. Sono 25 anni, da quando nel 1991 in Somalia è scoppiata la guerra civile, che a Dadaab ci sono rifugiati somali. Ci sono somali che a Dadaab sono nati, ci sono cresciuti e ci hanno messo su famiglia. Oggi i rifugiati dispongono di scuole, di un sostengo alimentare e di assistenza medica che in patria non potrebbero avere e, soprattutto, ancora oggi nelle loro zone di provenienza non avrebbero condizioni accettabili di sicurezza. Non vi è dubbio che la loro presenza sul suolo keniano debba finire, ma il loro rientro deve essere gestito in condizioni di sicurezza, di ordine e di dignità, come ha detto il Presidente della Repubblica Federale somala Hassan Sheikh Mohamud.
D. Quando ritiene che i rifugiati del campo di Dadaab potranno rientrare in Somalia?
R. Già dal 2013 è stato adottato un progetto pilota internazionale per favorire il rientro volontario dei rifugiati in Somalia e se si considera che ai tempi delle grandi carestie del 2011 e del 2013 a Dadaab si era arrivati a 500 mila sfollati, mentre oggi sono circa 350mila, vuol dire che il programma sta funzionando. Ma funziona lentamente perché lento è il ritmo col quale procede la pacificazione della Somalia.
D. Esiste dunque una correlazione tra la pacificazione della Somalia e la riduzione degli ospiti di Dadaab?
R. Certamente. Più la comunità internazionale aiuterà la Somalia a sconfiggere il terrorismo degli Al Shabab, prima si arriverà a chiudere il campo di Dadaab. Attualmente non ci sono le condizioni per la chiusura. Molti progressi sono stati fatti, ma ancora ci sono ampie zone della Somalia centromeridionale in mano ai terroristi. E sono proprio queste le zone da cui proviene il maggior numero dei rifugiati a Dadaab.
D. Cosa ritiene che dovrebbe fare la Somalia per favorire il rientro degli sfollati laddove le condizioni di sicurezza già lo permettono?
R. Occorre innanzi tutto creare un clima di pace e sicurezza in cui sviluppare un progetto di inserimento molto articolato e da monitorare costantemente per permettere a chi con la fuga ha perso tutto di ricrearsi autonome fonti di reddito. Le famiglie devono avere la possibilità di avviare una loro attività e la loro collettività deve disporre di scuole e ospedali. Una cosa è certa: per Dadaab una soluzione va trovata. I nostri somali, laggiù, non possono trascorrere tutta la loro vita in un limbo umano e giuridico. Altrimenti sarà un fallimento per la Somalia e per tutta la collettività internazionale.
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