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L’Unione Africana si vota l’immunità

Shukri Said – Blog Primavera Africana – Si è concluso da pochi giorni, in modo inaspettato e deludente per i sostenitori dei diritti umani, il 23° summit dell’Unione Africana iniziato lo scorso 20 giugno a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, sul tema”Agricoltura e sicurezza alimentare – La trasformazione agricola in Africa”.

Il titolo sollecitava  i 53 Paesi membri su 55 Stati africani a discutere per otto giorni su come cogliere le occasioni per realizzare la crescita inclusiva e lo sviluppo sostenibile nel settore dell’agricoltura, ma, come sempre accade la riunione si è concentrata nella Conferenza Generale dei leader svoltasi il 26 e 27 giugno che è stata dedicata in  concreto ad alcuni aspetti dell’attualità africana: sicurezza, integrazione continentale e sviluppo infrastrutturale.

Sotto il profilo della sicurezza i capi di Stato hanno discusso della formazione di un esercito intrafricano che, così come quello attualmente schierato in Somalia per combattere i terroristi di Al Shabab, sia in grado di intervenire ovunque in Africa si presenti la necessità di contrastare le minacce che oggi vengono soprattutto dai movimenti jihadisti e dai gruppi tribali.

L’integrazione continentale è stata declinata nel senso di programmare una riforma della stessa Unione Africana e delle altre organizzazioni interstatuali satelliti per renderle più elastiche ed indipendenti dai maggiori Paesi contributori nella prospettiva di una sempre maggiore influenza a livello internazionale.

Lo sviluppo infrastrutturale è stato invece il tema al centro dell’interesse dell’Egitto nel suo rapporto con l’Etiopia dove si sta costruendo, con l’intervento dell’impresa italiana Salini Costruttori e finanziamenti della Cina, una enorme diga lungo il corso del Nilo suscettibile di influire sulle piene del grande fiume e, quindi, sull’agricoltura egiziana. L’arrivo a Malabo del presidente egiziano Abdel Fatah Al-Sisi ha sottolineato la ripresa dei rapporti tra l’Unione Africana e l’Egitto che erano stati sospesi a causa della destituzione del Presidente Mohamed Morsi. L’elezione del maggio scorso di Al-Sisi, nonostante le polemiche per una percentuale “bulgara” di oltre il 90%, ha permesso  all’Egitto di riprendere il suo posto in seno all’Unione Africana dove le preoccupazioni per la diga etiope hanno trovato l’ascolto dei leader propugnandosi la necessità di una condivisione dello sviluppo infrastrutturale.

Ma un quarto argomento sopratutto interessava i leader riuniti a Malabo: l’immunità dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja – Cpi – per loro stessi e gli alti funzionari dei loro Stati. Tutti i Paesi membri hanno votato a favore con la sola astensione del Botswana nonostante l’arrivo a Malabo del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon che con la sua presenza intendeva rendere omaggio all’Unione Africana e non si è invece accorto di nulla.

L’immunità stava particolarmente a cuore a Uhuru Kenyatta ed al suo attuale vice William Ruto (all’epoca dei fatti incriminati suo avversario politico ed ora suo alleato) che proprio dal 2013 sono sotto processo dinanzi al Cpi per crimini contro l’umanità in relazione alle violenze scoppiate dopo le elezioni del 2007 che causarono un migliaio di morti e seicentomila sfollati.

Tecnicamente l’immunità è stata adottata con un emendamento all’art. 46A dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani stabilendosi che i leader di uno Stato africano o gli alti funzionari statali non possono essere sottoposti a processo durante la loro permanenza in carica: una formula immunitaria che in Italia non suona affatto nuova.

Tra le motivazioni emerse nel corso del dibattito, vi è l’accusa al Tribunale dell’Aja di neocolonialismo e di un presunto accanimento, oltre che contro il Presidente keniano Uhuru Kenyatta, anche contro Omar Hasan Ahmad al-Bashir, Presidente del Sudan e contro Laurent Koudou Gbagbo, sebbene quest’ultimo non sia più presidente della Costa d’Avorio e, anzi, si trovi attualmente in carcere all’Aja.

Ma l’accusa di neocolonialismo non sta in piedi se solo si pensa che la Corte penale internazionale dell’Aja ha processato indifferentemente capi di Stato africani come capi di Stato europei e basti pensare al leader bosniaco Radovan Karadzic, ex presidente della repubblica serba di Bosnia e a Slobodan Milosevic per i Crimini contro l’umanità perpetrati quale ex Presidente della Repubblica Federale di Iugoslavia.

Dal canto suo la Corte Penale Internazionale ha fatto sapere che non interromperà nei confronti di nessuno la sua azione istituzionale, tanto meno nei confronti di coloro che sono già sottoposti alla sua giurisdizione.

Resta però grande la delusione di tutti coloro che contavano sulla continuità di un percorso africano verso l’affermazione dei diritti umani: un declino di cui non si sentiva affatto il bisogno.






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